Ci sono parole che ci abitano per mesi, a volte per anni.
Sono parole che restano sotto pelle, sulla punta della lingua, sulle labbra, appena dietro gli occhi.
Sono parole che non si dicono.
Eppure non si cancellano.
Le portiamo con noi in ogni silenzio.
Ne sentiamo il peso nei muscoli del viso, nel respiro che cambia, nella gola che si chiude, nei sogni che ci tormentano e nelle fantasie che infestano la nostra mente.
Sappiamo che ci sarebbe qualcosa da dire… Ma dire cosa, esattamente? E a chi? E, soprattutto, come?
Non sembra anche a te che la maggior parte di noi non sa dire ciò che sente?
Non perché non sappiamo parlare.
Ma perché il ponte tra ciò che sentiamo e ciò che diciamo è spesso interrotto.
Quando il corpo urla “parla!” e la gola sussurra “non posso”
Quante volte ti è successo?
Di parlare, ma non sentirti rappresentato.
Di trattenere qualcosa fino a sentirne il peso nel corpo.
Di esprimerti, ma vedere l’altro non capire.
Di esplodere in ritardo, quando ormai è troppo.
Di adattare il tuo messaggio per renderlo “digeribile”.
Di sentire le parole annodarsi in gola e tra i pensieri, fino a non riuscire a uscire. E così scegliere, ancora una volta, il silenzio.
Di dire ciò che pensi, ma senza forza.
O al contrario, con troppa forza.
Ogni volta che questo succede, perdiamo qualcosa. Un pezzetto di verità. Un’occasione di relazione. Una possibilità di trasformazione.
E ogni volta che ci accade, ci promettiamo: la prossima volta parlerò meglio. La prossima volta sarò più lucido. Più centrato. Più efficace.
Ma poi, la prossima volta… è la stessa cosa.
Questa è una storia che conosco molto bene. Ricordo ancora l’angoscia di dire ciò che pensavo, da piccola. Espormi e parlare. Mi continuavo a dire che era una cosa così facile, e mi arrabbiavo così tanto con me stessa per non riuscirci.
E questo non succedeva mai quando mi trovavo in pubblico, ma ogni singola volta che dovevo dire qualcosa di importante – come mi sentivo – a qualcuno a cui tenevo.
In quelle situazioni nella mia mente si affollavano miliardi di parole e tutti gli scenari possibili in cui io parlavo e andava malissimo e, di conseguenza, ciò che volevo dire mi si strozzava in gola.
Quanto mi sono criticata per questo. Quanto mi sono odiata. Mi son sentita debole, vigliacca. Mi son detta parole terribili, quelle sì che le ho pronunciate.
Mentre le parole amorevoli restavano impossibili da tirare fuori.
Dire davvero è un atto incarnato
La nostra voce non esce dalla testa. Esce dal corpo.
Ed è lì che inizia, molto prima che in gola.
Ogni parola è il risultato di un’infinità di gesti invisibili:
La regolazione del respiro, il tono muscolare, la postura, l’emozione trattenuta, l’imprinting ricevuto su cosa è giusto o no dire, e come.
Dire è un atto fisico, emotivo, energetico.
E proprio per questo, è uno dei primi spazi in cui si manifestano i nostri blocchi più profondi.
Il blocco non è solo l’assenza della parola: è la sua distorsione.
È quando diciamo sì mentre il corpo dice no.
È quando sorridiamo mentre sentiamo rabbia.
È quando raccontiamo solo ciò che suona bene, e lasciamo fuori ciò che ci renderebbe veri.
È quando ci mordiamo la lingua, trattenendo le parole che vorrebbero uscire in nome di una regola non detta che non vorremmo nemmeno esistesse.
È quando, come succedeva a me, il terrore ti stringeva il petto e ti impediva di essere te stessa.
Da dove arrivano questi blocchi?
A volte è un trauma: uno scherno ricevuto da bambini, una presentazione andata male, un silenzio imposto.
A volte è l’ambiente familiare: se nessuno ti ha chiesto “Cosa pensi tu?”, impari che la tua voce non ha spazio.
A volte è l’ambiente sociale: se sei cresciuto sentendoti “troppo”, “esagerato”, “fragile”, è possibile che tu abbia imparato a contenere, filtrare, smorzare.
Altre volte ancora, il blocco non è tuo.
È genealogico.
È il corpo che si porta addosso il silenzio di chi è venuto prima.
È la paura di esporsi che non hai costruito tu, ma che si è innestata nel tuo modo di essere visibile.
E così, invece di parlare per entrare in contatto, parliamo per sopravvivere al contatto.
Cerchiamo di “essere all’altezza”, di “non sbagliare”, di “fare bella figura”.
Ma così facendo… non siamo più noi.
La voce come atto di libertà
Riconnettersi alla propria voce non è solo questione di comunicazione. È un atto di liberazione.
Quando la voce si radica, non serve più urlare.
Quando è coerente col corpo, arriva.
Quando è sostenuta da un messaggio interno allineato, non ha bisogno di difendersi.
E no, non serve un palco per fare public speaking.
Ogni giorno siamo chiamati a parlare in pubblico.
Quando dici un no.
Quando proponi un’idea.
Quando chiedi ciò che ti spetta.
Quando pronunci quel ti amo a lungo trattenuto.
Quando racconti chi sei.
Quando scegli la vulnerabilità e accetti il rischio di essere te stesso.
Il problema è che spesso consideriamo il parlare un automatismo.
E apriamo la bocca con il pilota emotivo inserito.
Con le antiche voci nella testa.
Con il corpo che vorrebbe sparire.
Imparare a parlare dal Sé, non per sé
Parlare dal Sé significa lasciare che la voce emerga da un luogo interno, integro, essenziale.
Non per apparire, ma per esistere.
Ed è da lì che inizia ogni trasformazione autentica.
Io e Grete Merlyn Kaljumäe, Self-Awareness Coach ed esperta in Public Speaking, abbiamo dato vita a Inside Out proprio per questo.
Perché crediamo che la voce sia uno degli strumenti più potenti di liberazione e guarigione.
Perché sappiamo – dai nostri percorsi, dai nostri clienti, dalle nostre vite – quanto si può trasformare quando si smette di imparare a parlare “bene” e si comincia a imparare a parlare “veramente”.
E no, non si parte dalla voce.
Si parte dal corpo.
Dalla memoria.
Dalla scrittura.
Dallo sguardo.
Dalla paura di essere visti.
In cinque incontri, esploriamo:
Il messaggio autentico (e ciò che ripeti per automatismo)
Il coraggio di esporti senza perderti
Il corpo come primo strumento di comunicazione
Lo sguardo come ponte (e specchio)
La voce come vibrazione incarnata, ritmo, impatto
Ma questo post non è per “vendere” questo percorso.
È per ricordarti che la voce che trattieni è anche la vita che trattieni (e, fidati, questo lo so bene).
E se iniziassi oggi?
Potresti chiederti:
Quale parola non sto dicendo?
Quale messaggio sto evitando?
Cosa sento davvero quando prendo la parola?
Oppure potresti cominciare dal corpo:
Cosa succede al mio respiro quando parlo?
Dove sento contrazione?
La mia voce cambia con le persone? Con i ruoli?
Piccole osservazioni che, fatte con presenza, possono aprire porte enormi.
La voce non è solo tua
È lo strumento con cui contribuisci al mondo. È il tuo canale per trasformare, relazionarti, costruire.
Non lasciarla in disparte.
Non aspettare che “venga fuori da sola”.
La voce va chiamata, ascoltata, allenata, sostenuta.
Se senti che è il tuo momento, se qualcosa dentro di te chiede voce, ti aspettiamo.
Il percorso si chiama Inside Out, ed è nato proprio per questo.
Con tutto ciò che serve per accompagnarti, da dentro, verso fuori.
Le preiscrizioni sono ora aperte: riservare il tuo posto significa dare vita insieme a questo cerchio di trasformazione.
Appena raggiungeremo il numero minimo di partecipanti, confermeremo date e luogo e inizieremo il nostro viaggio insieme.
Scopri il percorso Inside Out – sciogliere i nodi attraverso il public speaking.


